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U.P.D.C.

Vetreta - U.P.D.C.
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     E’ sempre la solita strada: scassata e piena di buche.

     Lasciando l’asfalto quasi ci si inerpica, in contro pendenza, per la stretta imboccatura di quella via sterrata, imbrecciata in quel colore rosa salmone un po’ assurdo, ma tipico di tante strade della nostra campagna. Rallento e procedo adagio per evitare sobbalzi e polvere, basta un filo di gas per andare alla giusta andatura, tanto di potenza ce n’è quanta ne voglio, con i cavalli che mi avanzano tra le ruote potrei tranquillamente aprirci un maneggio. Non è come una volta, quando ero ragazzo, che dovevo prendere la rincorsa per poter superare la prima salita.

     “A prova’! C’avevo un vespino arancione tutto scassato!”

     ll vespino lo avevo ereditato da mia sorella maggiore, alla quale era stato comperato, già usato da qualche anno, da nostro padre. Povero vespino faceva quello che poteva, anche allora come oggi i ragazzi sognavano di fare fuoco e fiamme con i loro piccoli mezzi ed io, per non essere da meno, lo smontavo e lo rimontavo in continuazione cercando di migliorarne le prestazioni, ma quello era e non si può ricavare sangue da una rapa. Devo dire che nonostante tutto l’ho congedato con onore. Come un muletto ci ha portato tante volte a pesca in due e qualche volta anche in tre, su e giù per tutti i fossi del comune. Quanto freddo e pioggia ho preso in pieno inverno, andandoci a caccia da un caro amico che abitava a 30 km da casa mia o andandoci in paese alle 6 di mattina, per prendere il pullman che mi avrebbe portato a scuola a Piombino. In fondo è stato bello anche quello, mi ha insegnato ad apprezzare il poco che avevo, mentre adesso hai tutto servito su un piatto d’argento ed il brutto è che non ne sei neanche soddisfatto.

     E’ con il mio vespino arancione che andavo avanti ed indietro per questa strada.

     Amata ed odiata strada.

     Amata come può essere amata la strada che ti porta a casa. Odiata come può essere odiata la strada che ti separa dagli amici. Al contrario di me, i miei amici vivevano tutti in paese, gli bastava uscire di casa per incontrarsi, parlare, giocare o anche fare la lezione insieme, io, invece, mi sentivo relegato in campagna, unico bimbo e ragazzo che aiutava per quello che poteva la famiglia, studiava come sapeva e si inventava passatempi solitari.

     Arrivato in cima alla salita mi appare chiaro che il passare degli anni lascia il segno su tutto. Le baracche in lamiera del simpatico meccanico, un po’ improvvisato, ma specializzato nelle vecchie “600” ed “850Sport”, non ci sono più e i cipressi a bordo strada, che ho visto crescere fin da ragazzo, hanno raggiunto dimensioni notevoli, ma non hanno un bel aspetto; spero di essere invecchiato un po’ meglio di loro, visto che praticamente abbiamo la stessa età.

     Cullato dallo sfrigolare della breccia sotto le ruote, mi ritrovo a pensare agli anni ’70, gli anni dell’austerità. In quel periodo io e mia sorella, poco più grande di me, ma a me tanto somigliante da essere scambiata per la mia gemella, ogni domenica pomeriggio andavamo in paese a piedi. Incontravamo gli amici, facevamo qualche vasca nel corso e, se faceva troppo freddo, ci chiudevamo ad ascoltare la musica del Jukebox nella saletta fumosa del bar “sotto Le Logge”. Per il rientro, “a buio”,ci organizzavamo per incontrarci con uno zio o con i vicini e fare un tratto di strada assieme perché, nonostante non fossimo mai stati troppo paurosi, ci faceva un po’ impressione camminare alla sola luce della luna o della lampada a pile per quella strada al fianco del bosco. Oggi invece siamo diventati troppo comodi, probabilmente non ci farebbe male riprovare a passare qualche domenica tutti a piedi senza tante polemiche sul chi, come e quando.

     Continuo a guidare lentamente e mi guardo intorno, chi non è indifferente alla vita di campagna nota immediatamente i confini delle proprietà. A sinistra, un padrone forse troppo affaccendato per ricordarsi di quel pezzo di terreno, ha lasciato la natura fare il suo corso, con il risultato che la macchia ha preso il sopravvento, coprendo con razzola e rovi anche le piante che potrebbero ancora dire la loro.

“… In fondo cosa vuoi che mi rendano!”

     A destra, invece, c’è uno splendido oliveto. Con soddisfazione penso che c’è ancora chi ama la propria terra e che, combattendo le asperità e la scomodità del terreno, continua a curare le proprie piante come faceva da ragazzo. Sono sicuro che l’appagamento provato da queste persone al momento della raccolta delle olive, gli faccia senz’altro dimenticare un po’ della fatica e del sudore che da tanti anni quella terra gli chiede.

      E poi, finalmente, mi si apre la valle davanti agli occhi. La strada è finita, sono arrivato alla mia meta.

      Accosto di lato, calo il cavalletto laterale e con un respiro profondo scendo dalla mia moto. Pochi passi e sono al centro di un piazzale asfaltato. Ora là, in piedi, comincio a guardarmi intorno, mentre ancora sto slacciandomi il casco. Ad ogni grado dei 360 della mia ricerca riconosco qualcosa, trovo qualcosa di nuovo e mi manca qualcosa. Vedo tutto con gli occhi dei ricordi. La cannella dell’acqua, il muro, la pianta che “… accidenti se è cresciuta!”. Là hanno sistemato una specie di giardino, di gusto per me strano, ma contenti loro, però lì manca il grande noce. Poi, come se a dartelo fosse stato un martello pneumatico travestito da pugile, ti arriva un cazzotto allo stomaco: ROTTAMI e ROVI! Rottami di furgoni, macchine e motorini, buttati lì con menefreghismo, “… tanto non ci sta nessuno!”, rovi che hanno invaso il fosso e che aggrediscono la casa dove sono cresciuto, ormai quasi in rovina. Ripenso a quando c’era il giardino di mia madre e su per la scalinata che portava a casa nostra c’erano dalie, rose e lillà. Quante spose a primavera ci chiedevano di potersi fotografare in quel giardino dopo la cerimonia nella chiesa lì accanto. Sarebbe bello poter contattare tutte quelle coppie di sposi e mettere insieme le foto di quel giorno felice, passato in questo luogo che ora le accomuna tutte. Ne nascerebbe un bell’album.

     La chiesa lì accanto…

     Anche quella sta andando in rovina. Eppure è la chiesa di un Santo famoso in tutto il mondo, nato qui in paese e sempre citato in ogni manifestazione organizzata dal comune. Chissà, forse non ci si vuole impolverare le scarpe venendo ad officiare i riti qua in campagna come facevano i preti di una volta, oppure come chiesa è troppo spoglia e semplice per le richieste moderne, ma ricordo bene che il Signore ed i miglior Santi hanno per prima cosa lasciato i lussi e le ricchezze a favore della semplicità e della povertà. Sia chiaro, io sono stato sempre ben lontano dall’essere un cosiddetto credente, ma ho sempre rispettato chi la pensa diversamente da me, che si parli di religione o di qualsiasi altra cosa. Quando ero piccolo consideravo quella chiesa, la cui porta distava circa cinque metri dalla porta della casa dove sono nato, come casa mia. Una volta era ben curata e, come ogni chiesa che si rispetti, era aperta a tutti, ma proprio a tutti, persino ai paperi di Sabatina che, probabilmente incuriositi dai visitatori, immancabilmente facevano il loro chiassoso ingresso a tutte le funzioni. Io avevo grande riguardo per quel luogo, anche quando, sempre da ragazzetto, mi attaccavo alla corda della campana per dare quei due o tre rintocchi che si sentivano fin giù nella piana sotto il paese. Non lo facevo in occasioni particolari, ma solo per dare allegria, per affermare “Oh, ci siamo anche noi!”

     “E la mi mamma mi rincorreva con il mestolino!”

     Ora la mia chiesa sta marcendo e non c’è più neanche la corda della campana che, nonostante il suo enorme valore storico, è ignorata e non suona più da moltissimi anni.

     Un ulteriore cazzotto allo stomaco lo ricevo guardando il fianco della collina. Là, dove una volta c’era l’orto “del mi’ babbo” tutto ordinato e distribuito su più terrazze, ora ci sono solo erbacce e tubi metallici dell’acquedotto piazzati lì alla bene meglio per risparmiare tempo e denaro.

     “… tanto non ci sta nessuno!”

     Dal centro del piazzale mi dirigo verso il lato dove si trova il fosso che scende dalla collina, mi siedo sul bordo del vecchio lavatoio e ripenso alla bellezza di questo posto tanti anni fa, tranquillo, baciato dal sole e protetto dai venti freddi. Poi mi sposto a sedere più in là, come a far posto ad Umberto, che nei miei ricordi sta portando le vacche, prima del rientro per la notte, ad abbeverarsi proprio lì accanto a me. Quasi mi sembra di vederle, cerco di non disturbarle. Sono tranquille perché lui gli sta, tenuemente, fischiando un motivetto, sempre lo stesso, quello che ricorda tanto il canto notturno dell’usignolo. Sì, perché in pochi ormai lo sanno, ma a volte basta una tranquilla melodia a rilassare questi pacifici animali dopo una dura giornata di lavoro nei campi. Ed io quel motivetto lo ricordo bene, “… me l’aveva insegnato proprio Umberto!”. Guardando verso il podere davanti a me rivedo quel terzetto, Umberto, Viola e Bionda che, coperti di sudore e polvere, lottano insieme per vincere la cattiveria del terreno. Perché quel podere gli ha chiesto tanta fatica, qualche muggito ed una buona dose di amorevoli bestemmie.

     Poi è venuto il trattore, e non più stata la stessa cosa.

     La mia mente si trova a volare verso le calde estati del passato. Ogni anno a metà Luglio, nell’aia di quel podere si svolgeva una grande festa, una festa di rumore, sudore e fatica: la trebbiatura. Era considerata una festa perché a dare una mano al contadino di turno, che poi avrebbe reso il favore, si riunivano allegri e volenterosi parenti, amici, conoscenti e colleghi di lavoro. Tutti insieme pronti a lavorare sì, ma anche a far baldoria.

     Di colpo sono di nuovo ragazzino e ritrovo l’enfasi e l’entusiasmo di quei tempi. Rivedo arrivare il grosso trattore con a traino le macchine trebbiatrici, fatte di legno e ferro, dal tipico color rosso chiaro della pittura al minio. Il convoglio a fatica passava lungo la stretta strada che portava fino al podere e ogni tanto impuntava nell’angolo di un muro o nel ramo sporgente di una pianta, facendo imbestialire non poco il trattorista. Arrivato a destinazione poi si piazzava tutto nell’aia e “si dava la via!”. I grandi ognuno con il proprio faticoso compito e noi ragazzi a correre avanti e indietro perché agli uomini che lavoravano sotto il sole non mancasse mai l’acqua e un po’ di vino. E poi a preparare i fili per la legatura delle presse di paglia. E poi e a portare le balle, quelle vuote, che la macchina avrebbe riempito di grano. E poi finalmente tutti a tavola con i grandi, a mangiare pasta al sugo, papero lesso, ormai scomunicato, e fagiolini in umido. Dopo, soddisfatti, si tornava a lavoro per tutto il pomeriggio. Giunti alla sera, Renato tirava fuori la sua fisarmonica e nonostante la fatica del giorno, a volte anche mal ripagata da un misero raccolto, iniziava a suonare. Così la giornata si chiudeva con allegria, qualche ballo, un po’ di chiacchiere e a volte qualche incontro da cui nascevano nuovi amori.

     Se racconti queste cose ai ragazzi di oggi la maggior parte ti guarda con uno sguardo che chiaramente ti dice: “Poveraccio!”. Solo qualcuno, invece, ti ascolta interessato e ti invidia quel periodo credendolo migliore del proprio, ma ognuno deve vivere la propria vita, cercando di viverla apprezzando quello che gli offre al momento, perché è talmente breve e piena di ostacoli che non possiamo permetterci di vanificarla.

     Ormai i ricordi riaffiorano uno dietro l’altro.

     Scorrendo lo sguardo verso la piana vedo quello che rimane dei vecchi orti del podere. In questa piccola valle è cresciuta così tanta frutta e verdura che ha permesso alle famiglie che hanno abitato qui di mantenersi. Anche il piccolo orto di nostro padre ci ha dato tanto, consentendoci di arrotondare il suo unico stipendio da operaio, con il quale i miei genitori hanno allevato me e le mie due sorelle maggiori. La sera tutti insieme preparavamo mazzetti di bietole, prezzemolo e radicchio, e alla mattina presto, per venderli, si faceva il giro dei fruttivendoli del paese con la nostra 500. A quei tempi era possibile, era tutto meno complicato. E quante ciliegie e pesche che ho mangiato, mamma mia che profumo, e che sapore, me li sogno anche ora.

Nel periodo che abbiamo abitato qui di sacrifici ne abbiamo fatti tanti, ma siamo riusciti a vivere dignitosamente ed a mantenere, nella semplicità della parola, un buon nome. In questo la figura di nostro padre è stata fondamentale. Nel corso degli anni, “il mi’ babbo”, si era guadagnato da vivere facendo innumerevoli lavori e per lavoro era entrato in contatto con tanta gente, ma la sua fama era dovuta principalmente alla sua gentilezza e disponibilità, e alle sue capacità manuali. Con quattro attrezzi improvvisati era in grado, come diciamo noi in maremma, “di rifare il capo ai bimbi”. Era un personaggio molto conosciuto e apprezzato in paese e in tutta la campagna circostante. Noi familiari ne avemmo l’ennesima conferma il giorno del suo funerale, l’immagine della grande folla che lo volle salutare per l’ultima volta ce la porteremo dentro per sempre. Pensare che ancora oggi, a distanza di tanti anni dalla sua morte, mi capita di incontrare persone che riconoscendomi o conoscendomi per la prima volta, mi raccontano benevolmente di quando lui li aveva aiutati, o gli aveva dato un consiglio, o c’era stato in un qualsiasi momento o per un qualsiasi bisogno.

     Se penso a mio padre, lo immagino nella nostra personale officina a fare qualche lavoretto. In quell’angusto spazio, tra la cabina elettrica e il muro dell’orto, ho fatto le mie prime esperienze con legno, ferro e motori. Li sono nate le mie balestre, dalla prima piccola, grezza, con tre metri di gittata, fino all’ultima che possiedo ancora e che avrebbe potuto gareggiare. Poi motori grandi e piccini, per i quali i miei primi incarichi furono ritagliare le guarnizioni con l’apposita carta battendola con il mio minuscolo martellino e smerigliare le valvole, snervante e monotono lavoro manuale. Dopo passavo tutto a chi veramente se ne intendeva. Oggi queste sono pratiche obsolete, ci sono apposta le macchine per farle. Nell’officina c’era di tutto un po’: tubi, ferri dritti e piegati da tagliare o saldare ed attrezzi agricoli da aggiustare o modificare; e il nostro lavoro il più delle volte era ripagato solo con un semplice grazie. Se tendo l’orecchio mi sembra ancora di sentire il rumore della mola, del trapano o il tin-tin del martello sull’incudine. Mi sfrego il braccio come a mandare via le faville del carbone della forgia, che immancabilmente mi sbruciacchiavano mentre giravo la manovella della ventola. La ventola alimentava il fuoco che si imponeva sul ferro ammorbidendolo, permettendo a quel sapiente martellare di ridare la giusta forma allo scalpello di un aratro, ad un bel ferro artistico, o anche di rifare una piccola nuova molla per un vecchio fucile. Conservo ancora delle scatole che contengono alcuni dei vecchi pezzi di ricambio, rigorosamente costruiti a mano, che mio padre usava per accomodare i fucili che gli amici cacciatori, immancabilmente ad ogni vicinanza di apertura della caccia, gli portavano a controllare. Ho anche la serie di scalpelli, anche questi assolutamente artigianali, che servivano per ricostruirne le parti in legno, ognuno aveva il proprio specifico impiego e il loro uso era riservato a mio nonno, che a conferma del detto toscano che recita “i figli dei gatti mangiano i topi”, era abile quanto mio padre.

     Quando ero piccolo passavo molto tempo con mio nonno, devo a lui la mia passione per la caccia, anche se, già quando sono nato, era troppo vecchio per esercitarla. Dopo tanti anni i miei reati saranno senz’altro prescritti, perciò posso anche confessarlo: mi ha allevato a pane e tagliole. Mi insegnava gli stradelli nel bosco ed i miglior posti dove tendere le mie piccole trappole. Mi ha insegnato a costruire i capanni di appostamento, che io poi ho disseminato sotto ogni fico o lillero della zona e da lì attentavo, con la mia piccola carabina ad aria compressa, ad ogni merlo, tordo, ma anche passero che osasse avvicinarsi. Ero il terrore di tutto ciò che volava. Qualcuno oggi potrebbe anche storcere la bocca, ma, come i famosi mazzetti di verdura, a quei tempi anche un piccolo arrosto procurato da un piccolo terrorista serviva ad integrare l’economia familiare.

     Nonostante il passare degli anni, la mia passione per la caccia non si è affievolita, sono solo un pochino più onesto!

     Da mio nonno non ho imparato solo a cacciare. Quel vecchio con il bastone mi ha insegnato moltissime cose sulle campagne e sui boschi dei dintorni, mi ha insegnato come ci si deve comportare in quei luoghi e il rispetto che si deve a ciò che ci circonda. Insieme, piano piano, abbiamo percorso chilometri per andare in quel dato posto a prendere quel dato pezzo di legno, che lui sapeva esserci, perfetto per costruire quella data cosa. E poi con quel legno, quella cosa, ce la facevamo davvero! Possono sembrare sciocchezze, ma è anche con queste piccole cose che si modella il carattere di una persona. E’ da mio padre e da mio nonno che ho ereditato e appreso la mia manualità, e ora anche io so costruire quella “data cosa” partendo da quel “dato pezzo di legno” o quel “dato pezzo di ferro”.

     Nella mia mente i ricordi saltano di palo in frasca ed altre persone vengono a bussarvi.

     Alla fine degli anni 60 venne ad abitare nella casa attigua alla chiesa una coppia un po’ particolare e sopra le righe, completamente estranea alla vita di campagna. Lei, Bruna, ottima persona e gran lavoratrice; lui, Edro, un pittore, dallo stile po’ strano, ma di buon livello, che aveva il carattere tipico di un artista: variabile come il tempo a Marzo. A volte stava per settimane senza rivolgere la parola a nessuno e dopo, magari, ti assillava con chissà quali progetti. Con lui mi sono veramente divertito. Movimentava le mie vacanze scolastiche portandomi in giro nei dintorni a fare foto o con lunghissime partite a bocce qui nel piazzale. Spesso mi chiedeva di accompagnarlo durante i suoi viaggi nel livornese, da dove proveniva, per urgenti ed importanti impegni, che sinceramente non sono mai riuscito a capire quali fossero. Gli anni che ha abitato qui furono per lui molto prolifici. Era affascinato dalle cose semplici che lo circondavano: i carciofi sfioriti dell’orto e le margherite gialle del fosso, le molle attrigate di un vecchio materasso ed il carrettino del nonno. Ci furono mostre e anche un discreto successo. Quasi tutti noi che abbiamo condiviso il suo periodo di permanenza qui, possiamo vantarci di avere avuto un suo quadro in ricordo, il mio, che mi rappresenta con i capelli azzurri dopo una corsa in bicicletta, è appeso in bella mostra nella sala di casa mia.

     Un latrare improvviso mi distoglie dai miei pensieri. Due grossi cani, tra l’altro anche brutti, mi si avvicinano con fare da padroni scendendo dalla scalinata che portava a casa mia. “O che moda sarebbe questa!” Lasciare degli animali così, liberi di scorrazzare e magari anche impaurire qualche visitatore, che per caso si è ritrovato qui attratto dai vecchi e rugginosi cartelli turistici posti all’inizio della strada. Qui abbiamo sempre tenuto cani: Lola, Diana, Ringo, Pancio, ma non sono mai stati una minaccia per nessuno. Va bene che qui ormai è disabitato, ma sarebbe il caso di prendere qualche provvedimento per non trovarsi un domani in qualche guaio. Comunque, sembra che il mio sguardo e il mio atteggiamento siano risultati più minacciosi dei loro. I cani, anche se brutti, capiscono sempre chi hanno davanti e io non sono certo una preda facile. Ora sembrano meno grossi, hanno abbassato il pelo e cominciano lentamente a defilarsi. Brutti e vigliacchi! Sembra quasi che fischiettino allontanandosi indifferenti.

     Dove ero rimasto?! Ah! Al quadro, alla bicicletta. Quante corse giù per i campi per andare a casa dei nonni al vecchio mulino. Quel trabiccolo ricavato da una vecchia e pesantissima bicicletta da adulti, prima troppo grande e poi troppo piccolo, era uno dei miei passatempi preferiti. Avevo sempre le caviglie e le ginocchia insanguinate per le cadute.

     Quel che vedo, però, non è stato il mio parco giochi personale. C’erano, “un volta ogni tanto”, gli amici o compagni di scuola che vivevano in paese e che venivano a trovarmi per passare qualche ora in campagna. Per me era una festa. Gli schiamazzi di bambini che correvano e giocavano riempivano l’aria per ore. Loro, spesso, si stupivano di cose per me normali ed immancabilmente tornavano a casa con qualcosa: una camicia bella sporca, un barattolo pieno di girini catturati nel fosso o un bel mazzo di fiori di campo per la mamma. Non c’era un amico che preferivo in modo particolare, di tutti ho un magnifico ricordo.

     Questo posto è stato vissuto anche da altri bambini, ma io ero già troppo grande per loro: le belle e dolci Roberta e Sabina, e Alessandro, un rosso Giamburrasca, tanto esuberante quanto eccezionale, in tanti anni di lavoro non ho mai più avuto un aiutante al suo pari. Un’estate decisi di revisionare il nostro vecchio trattore e questo “ragazzetto”, di appena otto anni, mi affiancò come perfetto attrezzista fin dall’inizio. Spesso lavoravamo tutto il giorno e a pranzo strozzava il boccone per arrivare in tempo. Curioso voleva sapere tutto quello che facevamo ed il bello è che riusciva a capire tutto. Di questo ne sono sicuro, perché sapevo che, una volta tornato a casa, faceva il resoconto esatto del nostro lavoro a tutti i familiari. Sarà stato un caso, ma quel trattore partì al primo colpo!

     E’ tanto che sono seduto qui, ma i ricordi non smettono di inseguirsi veloci, sempre più veloci. Rivedo le grandi querce ed il sambuco. La strada del campo dei serpi e lo stradello delle Tane e del Rigalloro. Galleria Giulia e Galleria Teresa delle vecchie miniere. I funghi e gli asparagi. Le lumache nelle murate cercate di buio con l’acetilene. E nitidi rivedo Renzo, Renato e Rosanna, i miei primi grandi amici. Risento il rombo delle piene del fosso, proprio questo dietro le mie spalle, che quando voleva dire la sua faceva paura, ma poi tornava ad essere un umile rivolo d’acqua. Un giorno qualcuno l’ha inquinato, abboccandoci le fognature delle nuove abitazioni del Tirassegno, rovinando irrimediabilmente anche la sorgente che prende il nome da questo posto. Sorgente che conosco bene, nasce in fondo ad una galleria scavata nella roccia, ai cui lati si formavano sottili stalattiti e che si fa sempre più stretta fino ad essere percorribile solo carponi. Ancora oggi vi sgorga acqua che, come allora, non è eccezionale perché troppo ricca di calcio, ma una volta riusciva ad alimentare buona parte del paese e delle campagne ed era pur sempre una nostra ricchezza. Quell’acqua ora è sprecata giù per il fosso.

     E poi, per un attimo tutto si ferma e la mente ragiona.

     Sono nato qui, vi ho vissuto per 24 anni, fino a che non mi sono sposato e per lavoro sono stato costretto a trasferirmi. Prima non riuscivo ad immaginare la mia vita in un altro posto, ma il passare degli anni ti insegna che c’è sempre qualcosa oltre l’orizzonte e lo devi affrontare per forza. Per cui sono passati sotto il ponte tante gioie e tanti dolori e oggi sono certo più che mai di avere la fortuna di essere una persona molto ricca. La mia ricchezza non è certamente il possedere denaro, anche se ne ho molto di più di quello che mi immaginavo da piccolo. Non sono la casa, le macchine o le moto che ho avuto. La mia ricchezza sono mia moglie e mio figlio, una famiglia che senza tante smancerie ho sempre amato, pochi buoni amici, un vivere dignitoso senza ombre ed in fondo più soddisfazioni che rimpianti, un buon lavoro, che mi ha dato molto, perché ho avuto modo di imparare tanto da tante persone ed a qualcuno ho saputo anche insegnare, e il raggiungimento della pensione, ho lavorato molto volentieri, ma non nego che vivo altrettanto volentieri questa nuova parte della mia vita. Seduto sul bordo di questo lavatoio, mi rendo conto che anche quello che vedo e che rivedo dentro me fa parte della mia ricchezza.

     Un brivido mi coglie di sorpresa e non è certamente dovuto al calare del sole aldilà del poggio. Mi viene una smania strana. Un nuovo turbinio di ricordi mi mette a disagio. Comincio a camminare per il piazzale cercando di vedere tutto, di incamerare tutto. Cerco freneticamente di caricare immagini, ricordi, persone e odori da portare via. Perché sto per andarmene da lì. In fretta mi infilo il casco ed il giacchetto. A testa bassa scavalletto, metto in moto e do gas. Tanto gas. Direzione casa. La casa di adesso. Ora non importa dei sobbalzi e della polvere. Vedendo le immagini che svaniscono negli specchietti retrovisori mi rendo conto che ho cercato di prendere il più possibile di quel posto, ma non sono riuscito a portare via tutto…

 

     … perché Un Pezzetto Di Cuore è rimasto a Vetreta.

 

 

M. P.

 

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